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I fantasmi della coscienza artificiale
| Mario Pireddu, Stefano Moriggi | La voce della comunità
Brevi riflessioni sull’intelligenza e le sue simulazioni
La maggior parte dei sistemi solitamente definiti frettolosamente “intelligenze artificiali”, che si tratti di software generativi o di altro tipo, prevede un aggiornamento sistematico e periodico che consente di implementare funzionalità, velocità nelle risposte e maggior precisione nella creazione di contenuti.
Così è anche per ChatGPT di Open AI, rilasciata al pubblico nel novembre 2022 con la versione GPT-3.5, e giunta nel tempo alla versione 4o (omni), multimodale e in grado di accettare varie forme di input tra cui testo, immagini, audio e video, con capacità di memoria più estese per conversazioni più efficienti.
Nel giugno 2024, a proposito delle diverse versioni di ChatGPT, Mira Myrati - la CTO di OpenAI - ha dichiarato che GPT-3 aveva il livello di intelligenza di un bambino piccolo, mentre GPT-4 era equivalente a quello di uno studente delle superiori, e “la prossima generazione del modello avrà l’intelligenza di qualcuno con un dottorato di ricerca per compiti specifici”.
Le dichiarazioni - rese peraltro durante una discussione organizzata dalla Dartmouth’s Thayer School of Engineering, nella sede in cui il termine “Intelligenza Artificiale” è stato utilizzato per la prima volta tra il 1955 e il 1956 - portano a chiedersi cosa significa concretamente raggiungere un’intelligenza di livello PhD. Il riferimento è chiaramente a punteggi ottenuti in test di vario tipo e a output di tipo complesso, ma ciò che appare più interessante è il continuo paragone con l’intelligenza umana che viene utilizzato da sviluppatori, CEO e CTO, commentatori e persino detrattori delle cosiddette AI.
Insidie antropocentriche
Definire cosa sia l’intelligenza da un punto di vista scientifico è un problema ancora aperto: esistono definizioni di intelligenza da vocabolario, che fanno riferimento al complesso di facoltà psichiche e mentali che consentono - “all’uomo”, come nella voce Treccani, e talvolta entro certi limiti ad altri animali - di “pensare, comprendere o spiegare i fatti o le azioni, elaborare modelli astratti della realtà, intendere e farsi intendere dagli altri, giudicare, e lo rendono insieme capace di adattarsi a situazioni nuove e di modificare la situazione stessa quando questa presenta ostacoli all’adattamento”.
In cibernetica, dice ancora la Treccani, l’Intelligenza Artificiale è la “riproduzione parziale dell’attività intellettuale propria dell’uomo (con particolare riguardo ai processi di apprendimento, di riconoscimento, di scelta) realizzata o attraverso l’elaborazione di modelli ideali, o, concretamente, con la messa a punto di macchine che utilizzano per lo più a tale fine elaboratori elettronici (per questo detti cervelli elettronici)”. Da un lato, se anche la macchina diventa cervello nelle definizioni ufficiali e nel linguaggio comune, è chiaro che la proiezione antropocentrica la fa ancora una volta da padrona nella discorsivizzazione di software, algoritmi e reti neurali. Dall’altro lato, se al concetto di intelligenza si associano “facoltà psichiche e mentali” e “attività intellettuale propria dell’uomo”, non è difficile riscontrare anche qui un pregiudizio cartesiano edificato sulla distinzione tra mente e corporeità, come se l’intelligenza potesse realmente consistere in una questione di cervelli nella vasca e non di corpi immersi nel mondo.
L’intelligenza, o della finzione
Nel caso dell’Intelligenza Artificiale, divenuta negli ultimi anni centrale nei dibattiti su quasi ogni aspetto delle nostre vite, va ricordato che lo stesso Alan Turing, prendendo atto della non disponibilità di una definizione univoca di intelligenza e di pensiero, propose il celebre imitation game - conosciuto poi come “test di Turing” - che, in modo più equilibrato, ricalibrava il focus della questione sulla percezione umana e sulla possibilità per la macchina di ingannare l’essere umano fingendosi una persona. Ci invitava inoltre a riflettere sul concetto di simulazione (imitation); il quale, se approfondito a dovere, potrebbe aiutarci a evitare (o a smascherare) indebite e ingiustificate sovrapposizioni e/o convergenze semantiche tra ciò che, appunto, in termini imprecisi e spesso infondati, siamo soliti chiamare intelligenza umana e il suo presunto contraltare macchinico.
Ci viene in soccorso da questo punto di vista anche la definizione che lo stesso John McCarthy - uno dei protagonisti del sopracitato Dartmouth Research Project on Artificial Intelligence - a distanza di anni ricordava essere stato il concetto che strutturava le loro ricerche: l’intelligenza artificiale “è qualcosa che, se fosse fatto da un umano, definiremmo intelligente”. Non servono molte conoscenze in ambito logico per intuire che l’eventuale capacità di una macchina di riprodurre un’azione che all’essere umano richiederebbe una certa intelligenza, ipso facto implicherebbe il riconoscimento alla macchina stessa di un’intelligenza identica, o anche solo paragonabile, a quella umana (qualsiasi cosa si intenda per intelligenza umana).
I fantasmi del non umano
È proprio nel tentativo di sgombrare il campo della discussione da equivoci di tal natura che Luciano Floridi ha riletto l’evoluzione delle ricerche sull’IA nei termini della storia di un divorzio: quello “tra la capacità di agire in vista di un fine” e la “necessità di essere intelligenti per perseguire tale fine”.
Uno spunto questo che ci offre per altro l’opportunità di aggiungere a quanto fin qui sostenuto una breve considerazioni funzionale - ci si augura - a smascherare quanto meno alcuni dei fantasmi che, gravitando attorno ai discorsi sull’IA, agevolano la circolazione di idee particolarmente seduttive per quanto epistemologicamente inconsistenti. Si allude qui, nella fattispecie, ai timori di quanti si dicono persuasi circa la plausibilità di un rapido miglioramento della performance delle “macchine intelligenti” al punto di produrre, tra gli effetti collaterali, l’epifania di una coscienza non umana e perciò stesso fuori controllo.
Leggende metropolitane? Non solo, visto che, per esempio, nel bestseller Superintelligenza (Bollati Boringhieri, 2018), il filosofo svedese Nick Bostrom associa la probabilità di un “rischio esistenziale” - concetto da lui stesso formulato per indicare la fine della specie umana - all’eventualità che, un giorno, una macchina (nel suo esperimento mentale si riferisce a un “paperclip maximizer”, ovvero a un generatore di graffette) acquisendo consapevolezza di sé potrà smarcarsi dalle logiche di produzione umane per trasformare “la Terra e regioni sempre più vaste dello Spazio in fabbriche di graffette”. Non pare difficile scorgere nel dipanarsi della distopia di Bostrom la traiettoria emotiva e psicologica descritta, già negli anni Settanta, dalla teoria dell’Uncanny Valley di Masahiro Mori.
Secondo Mori, oltre una certa soglia, la somiglianza di un robot all’umano si tramuta da empatia in una forte repulsione (come per il “perturbante” delle cose animate in Freud). In termini più aderenti al nostro ragionamento, potremmo analogamente sostenere che, oltre un certo limite, la capacità di simulazione delle facoltà umane da parte di un dispositivo tecnologico genera fantasmi. Ecco allora l’importanza di ricordarsi del “divorzio” di cui parlava Floridi; ecco ancora la necessità di far tesoro di evidenze che ci pervengono dalle neuroscienze. In particolare, di quelle - come ribadisce Giorgio Vallortigara nel suo Pensieri della mosca dal collo storto (Adelphi, 2021) - che ci invitano a prendere atto del fatto che un’evidenza di sofisticate capacità intellettuali non rappresenti di per sé la prova o la premessa della presenza di una qualche forma di coscienza.
Se, infine, si considera anche - come del resto aveva già intuito Leibniz - che gran parte della nostra attività mentale è inconsapevole, dovremmo cominciare ad avere elementi necessari e sufficienti per affrontare la necessità di corrispondere alle sfide (culturali) che l’IA ci pone con una riflessione radicale sul significato stesso che attualmente diamo - e che in futuro vorremo attribuire - al termine/concetto “intelligenza”. Possibilmente, facendo attenzione ai fantasmi.
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