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L’universo in tempo reale
| Maddalena Vario | Caffè scientifico
e-VLBI e Virtual Observatory: ecco come la rete GARR aiuta a svelare i segreti del cosmo
Mauro Nanni - INAF - Istituto di Radioastronomia di Bologna.
Referente italiano per il progetto EXPReS.
In occasione dell’Anno internazionale
dell’Astronomia, abbiamo voluto approfondire
due importanti progetti che l’INAF
sta portando avanti per l’Italia.
Si tratta di e-VLBI (Electronic Very Long
Baseline Interferometry) e di VO (Virtual
Observatory) e ne abbiamo parlato con i
ricercatori Mauro Nanni e Fabio Pasian.
Da quando gli uomini studiavano le fasi lunari e utilizzavano la posizione del sole sull’orizzonte per prevedere i cambi di stagione sono stati fatti notevoli progressi.
Sono state proprio queste prime osservazioni a dare il via allo sviluppo dei moderni osservatori astronomici e degli attuali strumenti dall’alto valore tecnologico.
Oggi le osservazioni non sono più registrate su lastre fotografiche, ma la luce proveniente da stelle e galassie è raccolta dai telescopi e convertita in segnali digitali.
L’ Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) è il principale Ente di Ricerca italiano per l’Astronomia e l’Astrofisica. L’INAF ha 17 strutture sul suolo nazionale collegate alla rete GARR.
Queste immagini digitali sono immagazzinate in archivi computerizzati accessibili agli astronomi tramite internet.
Informazioni via via più numerose e approfondite sullo studio del cielo hanno portato infatti alla necessità di elaborare soluzioni tecnologiche sempre più innovative, calcolatori sempre più veloci in grado di processare un’enorme quantità di dati, maggiore richiesta di banda e progetti sempre più complessi.
È proprio su due importanti progetti di risonanza mondiale che abbiamo scelto di intervistare Mauro Nanni e Fabio Pasian, che ci aiuteranno a saperne di più rispettivamente su e-VLBI e VO.
e-VLBI: un radiotelescopio grande quanto l’Europa
Potrebbe spiegarci che cos’ è il VLBI?
Letteralmente VLBI è l’acronimo di Very Long Baseline Interferometry, cioè interferometria su lunghissime distanze, una tecnica osservativa inventata a partire dagli anni ‘60 per ottenere immagini radio del cielo ad altissima definizione. Usando questa tecnica, i radiotelescopi sono in grado di osservare simultaneamente la stessa regione del cielo comportandosi come un’unica gigantesca parabola estesa per migliaia di chilometri.
Uno dei maggiori problemi che la radioastronomia ha dovuto affrontare, fin dalle prime osservazioni, era infatti legato alla difficoltà di individuare la provenienza dei segnali radio captati dalle antenne. Quando noi ascoltiamo la radio o parliamo al cellulare, ci capita talvolta di dover orientare l’antenna per cercare la direzione da cui il segnale arriva con più forza, ma questo non è sempre necessario proprio perché le antenne di questi oggetti sono progettate per ricevere segnale da tutte le direzioni.
Nel caso dell’osservazione astronomica, invece, il problema è proprio quello di cercare di capire l’esatta provenienza dei segnali radio per individuare da quale stella o galassia sono prodotti. Le leggi dell’ottica ci dicono che la capacità di distinguere i dettagli (il potere risolutivo) di uno strumento è proporzionale al diametro dell’obiettivo ed inversamente proporzionale alla lunghezza d’onda con cui opera. Questo si traduce nel fatto che se voglio costruire un radiotelescopio che abbia un potere risolutivo paragonabile a quello di un binocolo devo avere un “obiettivo” (un’antenna) con dimensioni di centinaia di metri. La Croce del Nord di Medicina (BO), che ha due serie di antenne lunghe 500 metri, riesce a “vedere nel radio” gli stessi dettagli che nell’ottico potremmo osservare con un cannocchiale di 4.5 centimetri di diametro.
Per fortuna lo stesso potere risolutivo di una antenna da 100 metri di diametro si può ottenere anche posizionando due antenne a 100 metri di distanza e combinando i segnali; in questo modo abbiamo costruito un interferometro. Operano oggi nel mondo interferometri costituiti da decine di antenne collegate fisicamente tra loro attraverso cavi coassiali o fibre ottiche su distanze di decine di chilometri. Questi radiotelescopi hanno lo stesso potere risolutivo dei telescopi ottici di medie dimensioni.
Il 2009 è stato proclamato dall’ONU Anno Internazionale dell’Astronomia, IYA2009. Per l’Italia il referente per il coordinamento delle iniziative di IYA2009 è l’ INAF.
Infine si è superato il vincolo costituito dal collegamento fisico registrando i dati per ogni stazione per ricostruire poi l’immagine radio con un calcolatore. In questo modo si possono combinare le osservazioni compiute da radiotelescopi distanti migliaia di chilometri riuscendo a vederle come distinte sorgenti radio che hanno distanze angolari inferiore al millesimo di secondo d’arco.
Con il VLBI abbiamo finalmente a disposizione radiotelescopi dalla “vista estremamente acuta”, anche migliore del telescopio Hubble.
Quando e perché si è passati da VLBI a e-VLBI?
Con il VLBI si è risolto il problema di ottenere immagini ad altissima risoluzione, ma questo comporta la registrazione ed trasferimento di grandissime quantità di dati (alcuni Terabyte per stazione) e soprattutto attendere che il supercomputer dedicato a correlare i dati sia disponibile.
Tipicamente passano alcuni mesi tra l’osservazione ed il momento in cui il ricercatore può disporre dei risultati.
Negli anni ‘90 si era iniziato a ventilare la possibilità di “usare Internet” per trasmettere i dati ed effettuare correlazioni in tempo reale, ma la cosa era ancora molto prematura. La prima volta che la comunità radioastronomica internazionale ha preso in esame seriamente la possibilità di utilizzare le reti informatiche per le osservazioni VLBI è stato durante un incontro al CERN nel gennaio del 2001, in cui ci si rese conto che nel giro di pochi anni la rete GÉANT e le reti nazionali della ricerca sarebbero state in grado di mettere a disposizione bande trasmissive dell’ordine dei Gbps. Per collegare le antenne alle dorsali sarebbe stato comunque necessario posare molte decine di chilometri di nuova fibra ottica, perché le antenne sono in zone remote dove è minimo l’inquinamento elettromagnetico.
Tre anni fa gli istituti che partecipavano al VLBI in Europa, hanno avuto accesso ad un finanziamento FP6 con il progetto EXPReS, che ha come scopo la realizzazione dell’infrastruttura per le correlazioni in tempo reale. Grazie a questo progetto, che ha avuto anche il merito di stimolare la collaborazione tra gli Istituti astronomici e le reti europee della ricerca, vi sono oggi in Europa nove antenne in grado di inviare i dati in Olanda al centro che opera la correlazione e si stanno compiendo le prime osservazioni e-VLBI con i risultati in tempo reale.
La rete e-VLBI in Europa è oggi una realtà, anche se vi sono ancora numerose antenne da collegare e problemi da risolvere.
Quando e in che modo la rete GARR è stata coinvolta nel progetto? Perché il suo ruolo è strategico?
Ricordo che al ritorno da quell’incontro al CERN scrissi una mail a Enzo Valente, direttore del GARR, per metterlo al corrente di quanto si stava discutendo e dell’esigenza per la radioastronomia italiana di partecipare all’e-VLBI in ambito europeo. In Italia vi sono due antenne, una a Medicina (35 Km da Bologna) ed un’altra a Noto (90 Km da Catania), infine una terza antenna di 64 m è in costruzione a 40 Km a nord di Cagliari. Queste antenne contribuiscono ad “allungare verso Sud” per circa 1000 Km la rete VLBI europea e sono quindi di grande interesse per il network e per le osservazioni sia radioastronomiche che geodinamiche. Il progetto e-VLBI venne presentato per la prima volta al 4º incontro di GARR-B che si tenne a Bologna nel giugno del 2002 e da quel momento vi è stata la massima collaborazione, sia dal punto di vista tecnico che organizzativo.
La Regione Emilia Romagna ha messo a disposizione una fibra spenta della rete regionale Lepida per il collegamento tra l’antenna di Medicina ed il PoP GARR di Bologna, collegamento che è stato oggetto di una convenzione tra il GARR, l’Istituto Nazionale di Astrofisica e la Regione. La scelta di mantenere e potenziare reti dedicate alla ricerca, anche dopo lo sviluppo delle reti commerciali, compiuta dall’Europa con GÉANT e dall’Italia con il GARR, ha permesso alla comunità radioastronomica europea di progettare e realizzare l’infrastruttura e-VLBI. In Giappone, Corea, Australia analoghe infrastrutture sono in via di completamento grazie al supporto di aziende del settore delle telecomunicazioni. Diverso è il caso degli Stati Uniti che dispongono di 10 ottime antenne dedicate al VLBI , ma che non sono in grado di pianificare una migrazione verso l’e-VLBI per gli alti costi che comporterebbe il collegamento ai provider, e anche per l’impossibilità di avere garanzie che i provider operanti nei diversi Stati mettano a disposizione adeguati collegamenti tra le loro dorsali di rete.
La rete e-VLBI in Europa è stata realizzata potendo contare sulla sperimentazione a cui hanno partecipato attivamente i tecnici del GARR, di GÉANT, delle reti della ricerca nei vari paesi. Se la comunità radioastronomica avesse avuto di fronte una decina di differenti provider, ben difficilmente avrebbe potuto venire a capo dei problemi tecnici ed organizzativi.
Cosa ricorda delle prime volte che i dati cominciarono a viaggiare in rete?
L’obiettivo che ci eravamo dati con EXPReS era quello di arrivare a trasmettere flussi di dati con velocità di 1 Gbps. Sulla carta e dalle prove fatte tra Medicina e Bologna sembrava che tutto fosse pronto per raggiungere immediatamente l’obiettivo. Nelle prime trasmissioni con l’Olanda non siamo riusciti a superare i 400 Mbps con periodi in cui avevamo una banda di soli 200 Mbps. Una velocità di tutto rispetto, che non avevamo mai raggiunto, ma all’atto pratico una grande delusione.
Dopo numerosi interventi sui router GARR e GÉANT e sugli apparati di trasmissione, eravamo arrivati a contare su una banda che permetteva di fare le prime stabili osservazioni a 254 Mbps. Avevamo raggiunto gli 800 Mbps ma con periodi in cui la congestione faceva scendere la velocità al di sotto dei 500 Mbps.
Questa situazione, che si ripeteva anche in altri osservatori, è stata argomento di numerosi convegni che hanno visto la partecipazione di esperti di telecomunicazione, dove è emerso che era una delle prime volte che si stava cercando di spedire attraverso un continente un unico flusso di dati di 1 Gbps. Stavamo quindi mettendo a dura prova i router ed i protocolli di trasmissione delle dorsali. Infine, realizzando circuiti dedicati (Lightpath) ma anche scrivendo nuovi driver software sui nostri apparati di trasmissione, siamo arrivati a 998 Mbps stabili. Ciò ci ha permesso di effettuare alcune osservazioni a quasi 1 Gbps nel gennaio del 2008. Sono stati necessari due anni di lavoro per ottenere questi risultati.
Ci può parlare di un risultato che senza l’intervento della rete non si sarebbe mai raggiunto nelle osservazioni astronomiche?
Aumentare la banda trasmissiva significa aumentare la sensibilità delle antenne, quindi poter osservare oggetti astronomici sempre più deboli. L’e-VLBI ha già permesso di passare dai 128-256 Mbps agli attuali 512-1024 Mbps, mentre i progressi delle reti ci fanno sperare di arrivare ad obiettivi ancora più ambiziosi di trasmissioni a 2 o 4 Gbps.
Ma la cosa veramente importante è che l’e-VLBI rende flessibile l’utilizzo dello strumento per condurre monitoraggi dell’evoluzione radio di fenomeni non prevedibili quale l’esplosione di supernove o i bursts X generati in alcune stelle doppie. In questi mesi è stato sotto osservazione con l’e- VLBI il gruppo di galassie in collisione conosciuto come ARP 299 che si trova a 134 milioni di anni luce di distanza. In queste galassie si osservano fenomeni di generazione stellare indotti dall’esplosione di supernove. All’apparire di una supernova, osservata con i telescopi ottici, possono immediatamente far seguito frequenti osservazioni radio per valutare l’evoluzione temporale del fenomeno nella banda radio.
Senza l’e-VLBI che permette di avere i risultati in tempo reale non sarebbe possibile organizzare campagne di monitoraggio con osservazioni ravvicinate per osservare fenomeni in rapida evoluzione. Con l’e-VLBI è anche possibile misurare, con precisione millimetrica, la distanza tra le antenne. In Giappone intendono utilizzare l’e-VLBI per campagne di monitoraggio delle distanze tra una griglia di antenne tese ad appurare se vi sono fenomeni premonitori dei terremoti. In questo caso avere risposte in tempo reale risulta fondamentale.
Come si sta evolvendo il progetto? A cosa aspirate? Quali sono i prossimi segreti dell’universo da svelare?
Non tutte le antenne che facevano parte della rete VLBI sono al momento in grado di partecipare all’e-VLBI. Fino a pochi mesi fa non era ancora disponibile la grande antenna di 100 metri di Bonn, che porta un grande contributo in termini di sensibilità, manca l’antenna di Noto, dotata di superficie attiva per osservazioni ad alta frequenza e mancano altre importanti antenne europee. Questo fa sì che molti ricercatori continuino a chiedere tempo osservativo VLBI.
Quindi il completamento della rete è una priorità anche per superare questa fase di gestione mista che impegna molto il nostro personale tecnico. Inoltre, se in passato i correlatori erano speciali supercalcolatori molto costosi, oggi si stanno diffondendo correlatori software in grado di funzionare su cluster di calcolo di medie dimensioni.
Disponendo di un correlatore software e di una rete adeguata si possono realizzare reti e-VLBI ad hoc. In Italia disporremo tra poco di 3 antenne, di cui una di 64 metri. Queste antenne, quando non sono impegnate sulla rete europea, potranno anche lavorare come un interferometro nazionale con base di circa 1000 km; interferometro a cui si potrebbero aggiungere di volta in volta altre antenne in Europa o nel mondo. La rete informatica rende estremamente flessibile costruire “reti variabili di antenne”.
In Olanda si sta terminando la costruzione LOFAR, un radiotelescopio di nuova concezione per le osservazioni di onde radio alle basse frequenze. Se il core dello strumento è in Olanda si sta valutando la possibilità di distribuire stazioni LOFAR in altri paesi europei per avere un maggiore potere risolutivo ed anche l’Italia si è candidata ad ospitare almeno una stazione.
Mentre il VLBI è nato con la registrazione dei dati su nastro e sta migrando solo oggi verso il collegamento in rete, LOFAR è stato disegnato per operare via rete in tempo reale e richiede per ogni stazione una banda di 3-4 Gbps. Senza la rete a banda larga l’estensione di LOFAR non si può realizzare.
Questi sono i nostri progetti dei prossimi anni. Non credo di essere in grado di indicare un grande mistero dell’universo che può essere svelato con i soli radiotelescopi perché è dall’uso congiunto di dati ottici, radio, X e gamma che l’astronomia ha fatto negli ultimi anni le più importanti scoperte, ma il nostro contributo all’esplorazione e di questo universo multicolore è quello di realizzare strumenti sempre più grandi, precisi e flessibili ed in questo la rete ci sta dando una grossa mano
Virtual Observatory: i dati celesti diventano accessibili sulla rete
In cosa consiste esattamente il progetto di Virtual Observatory (VO) e chi se ne sta occupando?
Fabio Pasian - INAF - Direttore Unità
Sistemi Informativi.
Presidente dell’IVOA
(International Virtual
Observatory Alliance).
La comunità internazionale astrofisica da alcuni anni sta lavorando alla creazione del VO, alla cui realizzazione sta partecipando attivamente anche l’Italia con un team di ricercatori dell’INAF, del CINECA e di alcune Università. Il progetto prevede la costruzione di un complesso sistema software che permetterà di consultare, da qualsiasi PC nel mondo, l’intero scibile umano composto dalle immagini digitali dell’Universo ottenute dai telescopi a terra e dagli osservatori orbitanti su satellite.
Qual è l’idea di base del progetto?
L’idea di base è quella di rendere accessibile in modo omogeneo su rete telematica i dati acquisiti da osservazioni effettuate a varie lunghezze d’onda (immagini, spettri, serie temporali, cataloghi di oggetti celesti ecc), fornendo agli astronomi gli strumenti indispensabili al loro lavoro quotidiano in modo facile e veloce.
Possiamo definire l’osservatorio virtuale come un progetto che ha l’obiettivo di creare una federazione di archivi di “immagini dal cielo”, frutto di osservazioni fatte a diverse lunghezze d’onda. Il confronto fra tali immagini è necessario per poter comprendere in modo completo i fenomeni celesti.
Avere a disposizione informazione sulla “luce” emessa da un oggetto nelle varie lunghezze d’onda, dal radio ai raggi gamma, ci permette di comprendere meglio le caratteristiche fisico-chimiche dell’oggetto in questione. Inoltre, l’enorme mole di dati a disposizione permette uno studio statistico su milioni di oggetti simili.
Oltre a raccogliere i dati, bisogna poi renderli disponibili, possibilmente con interfacce utente e procedure di archiviazione uguali per tutti, così da semplificare al massimo il lavoro di ricerca e l’utilizzo delle informazioni presenti. Di tutto questo si occupa l’IVOA.
Può entrare più in dettaglio sul ruolo dell’IVOA?
L’IVOA (International Virtual Observatory Alliance) è un’organizzazione internazionale formatasi nel giugno 2002 con lo scopo di coordinare la collaborazione internazionale necessaria per permettere un accesso globale ed integrato ai dati di interesse astrofisico disponibili in tutto il mondo. Sta in particolare lavorando alla definizione degli standard per fare in modo che l’utente sia in grado di accedere ai dati in maniera omogenea e immediata. L’Osservatorio Virtuale è proprio una rete di archivi che decidono di aderire a questi standard.
Il problema principale è quello di gestire efficacemente l’enorme mole di dati che sono contenuti negli archivi, e che hanno dimensioni dell’ordine dei Tbyte, o delle decine di Tbyte. La mancanza di standard con cui rappresentare i dati e comprenderne il contenuto rende difficile accedere efficacemente ad essi, conservarli e condividerli con il resto della comunità di ricerca. L’IVOA si occupa proprio di trovare ed applicare gli standard per uniformare i dati estratti da archivi diversi.
La parola chiave di IVOA è dunque interoperabilità. Si organizzano infatti due volte l’anno proprio degli “IVOA Interoperability Workshops”; nel maggio dell’anno scorso ne abbiamo organizzato uno in Italia, a Trieste.
Quali sono i più importanti obiettivi che sono stati raggiunti ad oggi dall’IVOA?
Già da molti anni la comunità ha uno standard per l’accesso ai file contenenti i dati veri e propri. Si tratta di FITS, il Flexible Image Transport System, un sistema auto-descrittivo in cui alcune parole chiave all’interno di un header descrivono il contenuto del file. Uno dei problemi è quello di rendere omogeneo il significato di queste parole chiave: un modo di farlo è quello di costruire uno strato di traduzione tra un vocabolario standard (lo Uniform Content Descriptor, in terminologia IVOA) e le parole chiave contenute negli header dei file.
Siamo abbastanza avanti in questo campo per quanto riguarda le immagini (diciamo le “fotografie” del cielo alle varie lunghezze d’onda), e sulla buona strada per quanto riguarda spettri e serie temporali. Non abbiamo raggiunto ancora la convergenza per quanto riguarda i cataloghi, tabelle che contengono dati pre-elaborati, in cui agli elementi di una riga sono assegnati valori aventi significato fisico come la posizione nel cielo, la luminosità, la composizione chimica, la temperatura e così via. C’è ancora qualche discussione in relazione all’accesso a queste tabelle, al modo più efficiente di indicizzarle per garantire un accesso veloce.
Ci sono delle resistenze, contrasti tra informatici e astrofisici: mettere d’accordo tutti su standard comuni è molto faticoso, anche se ne vale assolutamente la pena.
Avete progetti attivi? In quali progetti in particolare è coinvolta l’Italia?
La comunità astronomica italiana ha partecipato e partecipa tuttora a tre progetti EURO-VO nell’ambito dei Programmi Quadro FP6 e FP7 dell’Unione Europea.
L’obiettivo è quello di realizzare in Europa una vera e propria infrastruttura per i dati astronomici, cioè un insieme quanto più completo possibile di archivi che siano tutti compatibili con gli standard IVOA. Si tratta, per usare un termine forse un po’ abusato, di una grid di dati astrofisici. Il progetto EuroVO-DCA, una Coordination Action in terminologia FP6, si è concluso nel dicembre del 2008 ed ha creato la rete di contatti tra gli archivi europei necessaria per gettare le basi di questa infrastruttura. Il progetto EuroVO-Tech, una Support Action che si concluderà a giugno, ha realizzato prototipi e demo delle applicazioni necessarie per accedere ai dati e manipolarli, elaborarli, visualizzarli. EuroVO-AIDA è invece iniziato nel febbraio 2008 ed, essendo una Integrated Infrastructures Initiative, ha come scopo finale la realizzazione dell’infrastruttura per l’osservatorio virtuale europeo. Il contributo dell’Italia sta nell’accesso ai dati da simulazioni numeriche, nello sviluppo di nuove ontologie, nella realizzazione di sistemi di data mining e di visualizzazione di data set multi-dimensionali.
Particolare di B33 (nebulosa “Testa di Cavallo”) nella costellazione di Orione, visto sullo schermo di un computer mediante il sistema Virgo, sviluppato dallo European Southern Observatory (ESO)
Come vede il futuro del VO? Quale ruolo assumerà la rete della ricerca?
Il nostro obiettivo è fare in modo che l’astronomo sia facilitato nell’utilizzo e nel confronto dei dati senza studiare ogni volta meccanismi diversi per l’accesso ai singoli archivi o alle risorse di calcolo.
In questo modo lo scienziato si troverà sempre più spesso a confrontare i propri dati con ciò che è stato già osservato e di conseguenza potrà usare i dati estratti dagli archivi proprio come al momento viene utilizzato il web. Vogliamo fare in modo che l’Osservatorio Virtuale diventi il prima possibile una risorsa concreta e rivoluzionaria nello studio dell’Universo e per far questo non si può pensare di fare a meno di collegamenti ad altissime prestazioni come quelli forniti dalle reti della ricerca.
Sempre più utenti saranno invogliati a estrarre i dati dagli archivi e a portarli nel luogo in cui saranno elaborati, al proprio istituto o dove ci siano opportune infrastrutture di calcolo. Per dare un’idea della mole di dati, si pensi che tra il Large Binocular Telescope in Arizona, dove si trova un binocolo formato da due telescopi da 8,2 m di diametro, e l’Osservatorio di Trieste, dove si trova il centro dati dell’INAF, possiamo arrivare a scambiarci file per un traffico che arriva fino ai 100-150 Gigabyte di dati per notte di osservazione. Se pensiamo inoltre che sono oltre 1500 i ricercatori che costituiscono la comunità astrofisica italiana e 40.000 i ricercatori di tutto il mondo si può immaginare la grande quantità di dati che viaggerà in rete. Di conseguenza le reti della ricerca dei vari paesi saranno sempre più coinvolti in questa iniziativa e avranno un ruolo ancora più importante quando un numero crescente di utenti faranno ricorso all’osservatorio astronomico virtuale.
Dai un voto da 1 a 5, ne terremo conto per scrivere i prossimi articoli.
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