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Tanti ricordi, una ricetta: nella crisi innovare senza paura
| Luciano Modica | Ieri, oggi, domani
Questo articolo prende le mosse dal ricordo dell’amico Giuseppe Pierazzini, fisico e pioniere delle reti scomparso improvvisamente alcuni mesi or sono.
Questo triste evento mi ha fatto tornare in mente il ruolo svolto da Giuseppe e da quello che potremmo chiamare “il clan dei pisani” nel superamento della crisi più seria della ventennale esperienza GARR.
Ma andiamo con ordine. Conobbi Giuseppe che ero appena diventato rettore dell’Università di Pisa. Lo conoscevo già come collega di facoltà ma nel 1994 venne a trovarmi in rettorato, con Stefano Suin e Paolo Caturegli, due giovani tecnici visionari come lui ai quali una certa staticità dell’università andava stretta, per propormi la realizzazione a Pisa da parte dell’ateneo di una rete metropolitana proprietaria in fibra ottica. Si trattava di un progetto incredibilmente innovativo e vagamente folle per l’epoca (si pensi solo al monopolio telefonico) ma ben presto realizzarlo divenne un obiettivo di tutta l’università e anche della città, retta allora dal Sindaco Piero Floriani, italianista e collega universitario. Ad ogni scavo nelle strade della città l’università chiedeva e subito otteneva di poter passare le proprie fibre ottiche con il proprio logo SERRA (SERvizio Rete di Ateneo) sui relativi tombini. Relativamente in breve tempo gran parte del centro storico di Pisa, fittissimo di insediamenti universitari, fu cablato in fibra per permettere il collegamento dei dipartimenti e poi, a cascata, delle altre istituzioni universitarie pisane, dell’ospedale, degli altri enti pubblici. Conservo ancora una piantina della città in cui Pierazzini, Suin e Caturegli avevano tracciato in vari colori i percorsi della fibra già realizzati e da realizzare. Altro che città consorelle che si vantavano di essere cablate ma sulle cui fibre (non proprietarie) passavano raramente bit!
Questa bella esperienza coincise (felicemente, come poi si vedrà) con un periodo di crisi del GARR di allora, il Gruppo di Armonizzazione delle Reti della Ricerca che era stato voluto anni prima dal Ministro Antonio Ruberti, un altro grande innovatore visionario in Italia e in Europa (pochi ricordano che si devono sostanzialmente a lui i programmi quadro europei per la ricerca di cui sta per partire l’ottava edizione), per eliminare ridondanze, incompatibilità e sprechi nelle varie reti di trasmissioni dati che erano fiorite negli ambienti universitari e di ricerca. La realizzazione di una rete unitaria era una mossa davvero vincente di Ruberti, in fondo simile, permettetemi ancora un po’ di campanilismo, a quella di un altro illustre pisano, Alessandro Faedo, rettore e poi presidente del CNR che nei lontani anni ‘60 inventò quel Centro Nazionale Universitario di Calcolo Elettronico (CNUCE) a cui tanto deve l’Italia dell’informatica e delle reti telematiche. Da giovane laureato, fu al CNUCE che ebbi il mio primo “indirizzo elettronico”, modica at bitnet, se non ricordo male.
Però, nei primi anni ‘90, l’obiettivo di Ruberti sembrava essersi smarrito. Dopo la crisi valutaria ed economica del 1992 erano arrivate le grandi riforme dell’autonomia universitaria e degli enti di ricerca, immaginate da Ruberti ma poi realizzate concretamente da Carlo Azeglio Ciampi come Ministro del Tesoro. Però, tra le conseguenze impreviste, ci fu il quasi collasso della rete unitaria, che pareva, forse anche per via dell’uscita di scena di Ruberti, sul punto di crollare: non aveva più finanziamenti, non riusciva ad evolvere e le università si staccavano una dopo l’altra, comprando ciascuna dal monopolista un esiguo collegamento a 64 Kbps e creando altre sottoreti affidati a consorzi o altri soggetti. Sembrava insomma che il sistema stesse per esplodere, pur in nome di un valore di per sé positivo quale l’autonomia, andando avanti alla rinfusa e così rinunciando anche all’innovazione, assolutamente necessaria sempre ma soprattutto in un campo come la telematica. C’è da dire che, allora come oggi, c’era l’Europa a fare da contrappeso, con la rete europea della ricerca che aveva tratto spunto anche dall’idea italiana.
Nel 1995 entro anch’io, fondamentalmente per caso, in questa difficile partita. L’allora presidente della Conferenza dei Rettori, il fisico fiorentino Paolo Blasi, mi chiamò in quanto Segretario Generale della CRUI per chiedermi di occuparmi di questo spinoso problema di GARR dal lato universitario: o per dare l’estremo saluto a questa moribonda iniziativa o per capire meglio che farne, se possibile senza litigare troppo con i grandi attori non universitari presenti, come INFN, CNR e anche CINECA che, pur essendo un consorzio interuniversitario (ma, allora, solo di 13 università dell’Emilia e del Nord-Est), non sembrava in grado di rappresentare il grande sistema universitario di oltre ottanta atenei sparsi per l’intera penisola.
Non bisogna mai smettere di credere che si possa invertire il declino, a patto di mettere da parte gli interessi dei singoli e immaginare traguardi veramente comuni
Fu così che conobbi Enzo Valente, guru della rete per il suo ente, l’INFN. Cominciai subito a litigarci: è normale con lui. Ma siamo ambedue teste dure e, scontro dopo scontro, diventammo e siamo ancora molto amici. Ma, soprattutto, lo dico senza falsa modestia, abbiamo, insieme a molti altri amici e colleghi, ridato forza e gambe all’idea rubertiana. Cominciammo infatti a ricostruire l’idea di rete unitaria dell’università e della ricerca su basi nuove e autonomistiche, in un’ottica che potremmo dire federativa, dando vita ad una collaborazione che vedesse le università rappresentate dalla CRUI, il CNR, l’ENEA e l’INFN “proprietari” e protagonisti della rete all’interno del Consortium GARR, che tuttora esiste vivo e vegeto e ha proiettato la rete italiana a sempre maggiori successi nazionali e internazionali. Ma quanto lavoro, quanti litigi, quanti calcoli di tariffe e di livelli di connettività ci vollero per far tornare tutto e dappertutto!
In CRUI inventai così la commissione dei delegati rettorali per la rete GARR, in modo da coinvolgere tutti gli atenei nel progetto. Per l’Università di Pisa, a parte me che la presiedevo, ne fecero parte, eccezionalmente, due delegati, Peppe Pierazzini appunto e l’informatico Beppe Attardi. Nessuno sollevò eccezioni alla mia forzatura, tanta era la stima unanime che circondava questi due esperti pieni di passione e tanta l’ammirazione per i risultati che i “pisani” stavano ottenendo per cablare l’intero ateneo e l’intera città. Ma c’era anche un altro motivo, più “politico”: era diffusa la lamentela, in certo senso la paura, che l’INFN facesse troppo da padrone della rete GARR, visto anche il suo ruolo di primogenitura e di grande utilizzatore della rete stessa per i fiumi di dati che continuamente dal CERN fluivano per l’analisi a tutte le sezioni INFN presso le università, “cannibalizzando” ogni larghezza di banda allora disponibile. Dare spazio a un bravo ricercatore di informatica voleva anche riconoscere il ruolo indubbio che questa disciplina aveva e avrebbe ancora giocato nello sviluppo delle reti telematiche. In altre parole, se a Pisa si era trovato un equilibrio tra le due anime scientifiche e tecnologiche della rete, il loro impegno alla CRUI era un segnale che così si voleva procedere anche a livello nazionale.
Frugando tra le mie vecchie carte purtroppo mai rimesse in ordine, ho ritrovato una lettera della fine del 1995. A nome della CRUI proponevo al Ministro di allora, era il fisico Giorgio Salvini, di utilizzare a livello nazionale lo stesso meccanismo che si stava utilizzando a Pisa: fare cioè di GARR una rete “proprietaria”, che fornisse connettività a larga banda a tutto il mondo della università e della ricerca e la acquistasse dai fornitori privati o pubblici solo quando indispensabile (per i grandi collegamenti nazionali e internazionali) e sulla base di grandi gare di appalto a nome di tutti gli utilizzatori. Una rete di sistema che potesse ospitare anche quella ricerca e sperimentazione nel campo della telematica che erano e sono assolutamente vitali per rimanere al passo coi tempi e che sono la vera e profonda motivazione della realizzazione di una rete proprietaria. Non senza dimenticare che su una rete corre anche tutt’altro, a cominciare dalla telefonia per finire all’ormai onnipresente web. Ricordo la frenesia con cui Paolo Caturegli voleva sostituire tutti i centralini dell’Università di Pisa con i nuovi (e costosi) modelli VoIP collegabili alla fibra e l’emozione quando alla fine del mio rettorato mi venne a riferire che eravamo ormai indipendenti per tutte le comunicazioni telefoniche e telematiche interne. Certo, la rete GARR di oggi è frutto delle idee e del lavoro di centinaia di persone, in tutte le università e gli enti di ricerca. È frutto anche di un uso sapiente (quanto raro, purtroppo, nel nostro Paese) dei finanziamenti europei per lo sviluppo delle regioni dell’Obiettivo 1 (allora si diceva così), cioè le regioni del Mezzogiorno le cui università fecero la scelta generosa e altamente strategica di mettere a disposizione i “loro” fondi europei per realizzare anche una rete nazionale, sulla base del principio inoppugnabile che una rete ha senso e funziona bene solo se è pienamente connessa con il resto del Paese e del mondo. Tempi di grandi investimenti e di grandi innovazioni, di cui ho potuto vedere solo gli esordi di GARR-B e poi, divenuto nel frattempo Senatore della Repubblica, seguire solo da lontano GARR-X e tutto il resto. Da 64 Kbps a 100 Gbps in dieci anni, con un’organizzazione rodata e stabile che promette di dare ancora molti frutti.
Val la pena rivangare queste vecchie storie, belle favole da raccontare ai nostri nipoti? Forse sì ma non è per questo che l’ho fatto. Credo piuttosto che esse ci possano ancora dire qualcosa sul nostro futuro, o meglio su come cambiarlo. Oggi, come allora, il Paese è in crisi, la sensazione di un declino inarrestabile è forte e diffusa. Vent’anni fa l’Italia riuscì a realizzare progetti di grandissima qualità, GARR è uno di questi. Allora il vero motivo per cui forse vale la pena raccontare quelle lontane vicende è che non bisogna mai smettere di credere che si possa invertire il declino e ricominciare a svilupparsi, a patto però si condivida un punto cruciale: quello di lavorare per il nostro Paese ritrovando la capacità di immaginare traguardi altamente innovativi di interesse comune (veramente comune) e di lavorarci incessantemente, ponendo in secondo piano gli interessi dei singoli, della singola università, del singolo ente, della singola disciplina. Solo così ne potremo uscire vittoriosi come singoli, come comunità di universitari e scienziati e come paese.
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