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Con IPv6 ecco l'Internet of (future) Things
| Gabriella Paolini | ipv6
L’Internet delle Cose (Internet of Things) o l’Internet di Tutto (Internet of Everything) è sempre stata pensata come la killer application per l’introduzione di IPv6.
E i motivi per pensare questo ci sono tutti. Sicuramente IPv6 risulta come la soluzione perfetta a molte delle richieste che l’Internet delle Cose fa alla rete.
Il primo elemento a favore dell’introduzione del nuovo protocollo è il numero delle “cose” connesse alla rete e quindi il bisogno di indirizzi. Secondo le stime di un rapporto stilato da CISCO e ripreso da Siemens, i terminali connessi in rete nel 2020 saranno circa 50 miliardi contro una popolazione mondiale di 7,6 miliardi. In realtà il sorpasso fra numero di terminali connessi e persone c’è già stato nel 2008. Da quel momento si è andati a crescere in modo sempre maggiore.
Questo è sicuramente un elemento che appare a vantaggio di IPv6 per il suo numero enorme di indirizzi pubblici disponibili. Ma non è il solo, anche l’altra caratteristica specifica di IPv6, gli Extension Headers, gioca un ruolo importante per vari aspetti nello sviluppo dell’Internet delle Cose e di IPv6 stesso. Per definizione le “cose” connesse in rete possono avere caratteristiche ed esigenze diverse e quindi la flessibilità di IPv6 diventa un aspetto utile per gestire queste cose. Se il terminale si deve spostare, pur rimanendo collegato alla rete, le caratteristiche del Mobile IPv6 possono essere sfruttate a pieno, permettendo spostamenti, oltre che fra reti interne, anche fra reti di diversi gestori e con diversi prefissi di rete. Anche la privacy e la sicurezza possono essere gestite a livello di rete con l’utilizzo dei relativi Extension Headers. E per una “cosa”, come ad esempio un sensore, trasmettere dati esatti, non modificati e non condivisi con nessuno, è una caratteristica fondamentale che vale la funzionalità stessa del sensore.
La flessibilità di IPv6 permette di gestire le differenti caratteristiche delle "cose" connesse in rete
Altra risposta che IPv6 può dare alle necessità di un terminale connesso in rete è la caratteristica nativa dell’autoconfigurazione. Può succedere che un sensore sia posizionato prima in un luogo e poi successivamente in un altro, in poco tempo e possibilmente senza la necessità di essere riconfigurato. Oppure un sensore può essere sistemato in luoghi che non permettono l’accesso stesso ad esso, perché particolarmente disagevoli per le persone. Grazie all’autoconfigurazione di IPv6 non c’è la necessità di cambiare l’indirizzamento, oppure di avere un server DHCP configurato.
A questo punto sembra tutto semplice, l’Internet delle cose non può funzionare senza IPv6. Ma non è così, almeno non per il momento. Anche se tutte queste esigenze dell’Internet delle Cose si possono risolvere a livello di rete con l’uso di IPv6, si sta preferendo farlo a livello applicativo continuando ad usare IPv4. Lavatrici e frigoriferi con il WiFi e la connessione a Internet sono arrivati sul mercato, ma del nuovo protocollo nessuna traccia. La nuova offerta del mercato che riguarda tutte le grandi case produttrici di grandi elettrodomestici promette lavasciuga, cucine, frigoriferi e aspirapolveri robot che possono essere monitorati e controllati via tablet, pc o smartphone. Quello che è stato fatto è cercare un compromesso che potesse integrarsi con l’attuale situazione delle reti a livello mondiale che al momento continua a vedere una scarsa diffusione di IPv6. La soluzione è stata trovata a livello applicativo. La comunicazione non avviene in modo diretto fra il terminale del proprietario e la lavatrice, il forno o il frigorifero connesso. Tutti i messaggi scambiati fra gli oggetti e le persone sono gestiti da un server esterno che fa da mediatore. In questa configurazione sia il frigorifero che lo smartphone del proprietario mantengono il ruolo passivo di client e si scambiano informazioni attraverso un server che gestisce i dati di quel device che appartiene a quel determinato utente. Soluzione sicuramente interessante che si adatta alla realtà di Internet, ma apre scenari e problematiche diverse. Se tutto passa attraverso quel server, quel server conosce tutti i dati scambiati fra terminale e terminale, conoscendo quanti calzini laviamo alla settimana. E diventa inoltre un pericoloso elemento indispensabile per far parlare i due terminali. Se la struttura server non funziona, la nostra lavatrice non partirà.
Con IPv6 ed i suoi indirizzi pubblici lo smartphone parlerebbe direttamente con la lavatrice mantenendo la propria privacy e la propria autoconsistenza
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