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Infrastrutture di ricerca alla prova di EOSC
| Federica Tanlongo | Internazionale
L’Europa sempre in prima linea per promuovere l’open access
Sempre più internazionali, le IR si preparano a giocare un ruolo da protagoniste nella nuova cloud europea della ricerca
Le Infrastrutture di ricerca (IR) hanno ormai assunto un ruolo di primo piano nei settori più disparati e sono tra i maggiori produttori di dati scientifici di qualità. Ma hanno bisogno di programmazione, investimenti pluriennali e del supporto di infrastrutture digitali ad alte prestazioni, per questo possono essere realizzate solo con un impegno sovranazionale.
Giorgio Rossi
European Strategy Forum on Research Infrastructures
Chair
Ne abbiamo parlato con Giorgio Rossi, chair dello European Strategy Forum on Research Infrastructures, o più brevemente ESFRI.
Come stanno cambiando le IR europee?
Negli ultimi anni il mondo delle IR europee ha visto una sempre maggiore strutturazione che lo ha portato tra l’altro a espandersi a nuovi campi del sapere: non più soltanto fisica, astronomia e scienze della Terra, ma anche domini come la biomedicina, le scienze umane e quelle ambientali. Parallelamente si sta affermando l’idea di una fruizione dei dati anche al di fuori dell’ambito strettamente scientifico, ad esempio da parte delle attività produttive, della società civile o della politica. ESFRI ha avuto un ruolo importante in questo processo grazie alla definizione dello strumento metodologico della roadmap, adottato da molti paesi anche a livello nazionale. Ormai le IR sono considerate la regola e non l’eccezione, sia dalle istituzioni che dai ricercatori e non sono più relegate nelle torri d’avorio della Big Science.
Che vantaggio ha un approccio europeo?
Buona parte delle IR ha intrinsecamente una dimensione sovranazionale per le risorse economiche, organizzative e soprattutto umane che richiede.
Per questo, l’approccio europeo è abilitante: non solo permette di fare le cose meglio, ma molto spesso rappresenta la discriminante tra poterle fare o no.
Non è un caso che l’esigenza di un forum che definisse strategie comuni per i paesi dell’Unione e gli associati che contribuiscono ai programmi quadro risalga ai primi anni 2000, con la creazione di ESFRI su mandato del Consiglio europeo. Ogni paese ha le sue priorità e quindi la reale partecipazione alle singole IR è a geometria variabile, ma in questo modo si è creato un terreno comune per selezionare e valutare le infrastrutture e decidere del loro finanziamento a lungo termine: un fatto fondamentale se pensiamo che la vita media di una IR spesso si misura in decine di anni, con fasi di realizzazione pluriennali che necessitano di impegni chiari in termini di finanziamento e sostenibilità.
IN QUESTO CAMPO L’APPROCCIO EUROPEO È LA DISCRIMINANTE TRA POTER FARE LE COSE O NO
La sostenibilità è un problema fondamentale per le IR. Pur non esistendo una ricetta unica per assicurarsela, vediamo che le infrastrutture di successo sono quelle che meglio riescono ad attrarre sia investitori sia ricercatori interessati ad utilizzarle. È il caso dell’ESRF (il sincrotrone europeo di Grenoble), tra le più avanzate sorgenti di raggi X per applicazioni di fisica, chimica, biologia e scienze dei materiali che, negli ultimi anni ha visto aumentare la sua partecipazione internazionale con nuovi paesi utilizzatori e che contribuiscono al suo budget.
Non tutti i problemi hanno solo natura economica: SHARE, IR dedicata allo studio longitudinale dell’invecchiamento della popolazione europea, ha faticato a stabilizzare la copertura pan-europea necessaria. Qui il problema non era tanto economico quanto scientifico: con alcuni grandi paesi fuori dal quadro, i risultati sarebbero stati parziali e assai meno rilevanti in termini scientifici e come supporto alle decisioni politiche.
E in Italia?
Siamo allineati agli altri paesi europei, con una roadmap realizzata nel 2010 e rinnovata lo scorso anno nel PNIR (Programma Nazionale delle Infrastrutture di Ricerca). Vi sono circa 90 infrastrutture di rilevanza nazionale o internazionale e gli impegni di partecipazione a queste ultime, cui sono dedicate risorse specifiche del finanziamento degli enti di ricerca.
Si può fare meglio?
Sì, aumentando le risorse. L’Italia ha un altissimo potenziale, penalizzato da un investimento bloccato da anni nei dintorni dell’1% del PIL contro il 2.3% circa della media europea e valori vicini o superiori al 3% in alcuni paesi. Abbiamo risorse umane di ottima qualità, ma sono poche e per la scarsa attrattività del settore spesso perdiamo alcune tra le più brillanti senza riuscire a sostituirle con ricercatori stranieri di pari livello.
Alle volte, è anche un fatto di priorità. Ad esempio il nostro paese ha dato un contributo sostanziale alla realizzazione della luce di sincrotrone di quarta generazione XFEL, progettandone e costruendone parti fondamentali ad altissima tecnologia nel settore degli acceleratori superconduttivi di elettroni. Questa partecipazione ha portato prestigio e ricadute importanti a livello scientifico e industriale, ma non è stata affiancata da adeguate risorse necessarie a preparare gli esperimenti ed i ricercatori all’utilizzo di questa infrastruttura innovativa e di grande rilevanza in molti campi della analisi della materia.
Cosa possono fare gli enti di ricerca?
La situazione degli enti di ricerca è molto variegata. Chi ha capacità di investimento sta facendo bene, ma potrebbe fare meglio limitando la burocrazia e sostenendo maggiormente i propri ricercatori nell’utilizzo delle infrastrutture esistenti. Mandando in sofferenza molti enti, le economie decise dalla politica hanno anche penalizzato l’utenza delle risorse già realizzate, anche con la partecipazione degli enti. I ricercatori cercano di sopperire come possono alla scarsità di risorse economiche, ma dipendere eccessivamente da progetti esterni, europei o industriali, non permette uno sviluppo equilibrato della ricerca. In una situazione sana, questi fondi sono complementari e non possono sostituire i finanziamenti strutturali: non sono certi, hanno tempi variabili, non coprono tutti i capitoli di spesa ed assorbono per la redazione di proposte energie a volte eccessive. Se si è brillanti si può anche fare una carriera individuale basata sui progetti europei, ma certo non a mantenere o sviluppare i laboratori e gli istituti di ricerca e a far progredire il Paese.
Qual è in questo quadro il contributo che possono dare le infrastrutture digitali?
Le infrastrutture digitali hanno un ruolo fondamentale sia di per sé che come collante che tiene insieme il sistema: questo perché al centro ci sono i dati, che viaggiano, sono elaborati e conservati proprio sulle infrastrutture digitali. Quando si sviluppano correttamente, esse permettono di integrare ambiti disciplinari diversi, far interoperare i dati e renderli fruibili in modo ottimale. Tutto ciò è facile da immaginare ma molto difficile da realizzare: infatti non tutte le comunità sono allo stesso livello e le soluzioni già sviluppate non sono necessariamente compatibili tra loro. È quindi necessario sviluppare un linguaggio comune, definendo buoni metadati. Si tratta di un problema più politico che tecnico, legato alla capacità di accordarsi e trovare soluzioni comuni senza però fare violenza alle discipline che hanno già trovato soluzioni valide costringendole ad adottare soluzioni reinventate da altri, o penalizzandole riorientando i finanziamenti verso nuovi sistemi non inclusivi e partecipativi, usando invece la giusta dose di sussidiarietà laddove buone soluzioni sono già in essere.
È ciò che si sta facendo oggi in Europa?
Oggi siamo nel pieno della discussione su come realizzare il cosiddetto European Open Science Cloud (EOSC). C’è una grande promessa di risorse per i servizi sui dati, che non deve offuscare il fatto che tali servizi di EOSC possono reggersi solo se supportati da un ecosistema complesso che includa reti, calcolatori, memorie, produttori di dati… In questo senso c’è chi ha proposto di sostituire il termine “cloud” che è parte dell’acronimo con “commons”, parola che a mio avviso rende meglio l’idea di un bene comune realizzato da e per la comunità della ricerca europea, senza confondersi con altre tecnologie di calcolo.
È STATO PROPOSTO CHE LA "C" DI EOSC INDICHI "COMMONS", PER MEGLIO RENDERE L’IDEA DI UN BENE COMUNE REALIZZATO DA E PER LA RICERCA EUROPEA
Si tratta di un’iniziativa con un alto potenziale, ma da articolare con grande attenzione, anche per la presenza di tante agende diverse: giustamente, chi rappresenta queste risorse ne deve difendere l’importanza e avere voce in capitolo, ma il rischio di influenze di tipo lobbistico sulle soluzioni va limitato.
Ad esempio oggi nella EOSC Declaration si parla di dati FAIR, ma senza specificare chi ne garantirà qualità e integrità. È evidente che chi i dati li produce, quindi in primo luogo le IR, debba giocare un ruolo chiave, ma al momento ciò non è stabilito da nessuna parte. Che i produttori di dati si facciano garanti della loro qualità, realizzando metodiche e scelte su quali siano i dataset utili da rendere pubblici e verificando che la loro integrità permanga anche nelle successive manipolazioni, è invece fondamentale per la credibilità dell’EOSC e in ultima analisi il suo successo.
Se si agirà con intelligenza, ogni comunità vedrà riconosciuta e valorizzata la propria specificità e si eviterà di imporre un sistema eteronomo a chi già fa bene, integrando e facendo interoperare i sistemi esistenti, e aiutando l’allineamento delle aree meno sviluppate.
Come avere voce in capitolo?
Perché le esigenze e le priorità del sistema italiano vengano riconosciute è importante far fronte comune sui vari tavoli aperti a livello europeo: ESFRI, ERAC, Research Working Party e via dicendo. Andare in ordine sparso vuol dire non essere rappresentati: se nella cacofonia di 28 paesi può essere difficile ascoltare tutti, star dietro a una pluralità di attori diversi in ogni paese è davvero impossibile.
Per la nostra Costituzione la ricerca è libera e di conseguenza gli enti di ricerca sono vigilati ma non governati dalle istituzioni. Di questa libertà bisogna far buon uso convergendo su una posizione coerente da condividere con il MIUR nel rispetto delle diverse funzioni. È quanto sta cercando di fare ICDI (Italian Computing and Data Infrastructure), tavolo di lavoro che vuole promuovere sinergie tra IR e Infrastrutture Informatiche e, nel lungo periodo, realizzare un coordinamento che possa essere un forum di elaborazione della strategia nazionale.
Quali saranno i prossimi passi?
È stata pubblicata una prima tornata di bandi finalizzati a dar forma a EOSC. EOSC offrirà possibilità di finanziamento, ma la sua realizzazione implicherà anche nuovi investimenti, non sono coperti da finanziamento diretto: reti ad alta capacità, fibre ottiche, supercomputer... Bisognerà arrivare a una rapida ottimizzazione di tutto il sistema, sia per avere contezza dell’investimento globale sia per capire il ruolo di ciascun attore, evitando sovrapposizioni ma anche spazi non coperti (inclusa la formazione delle necessarie risorse umane) che ne indebolirebbero l’intera realizzazione.
Dai un voto da 1 a 5, ne terremo conto per scrivere i prossimi articoli.
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